Nulla è più distante dal viaggio del turismo

In conversazione con Rodolphe Christin 
di Valentina Pigmei

Venezia, aprile 2020: le immagini delle acque limpide della città hanno fatto il giro del mondo. La capitale dell’overtourism improvvisamente grazie alla stasi del lockdown è tornata a vivere. Qualche anno fa Rodolphe Christin ha scritto un breve saggio illuminante intitolato Turismo di massa e usura del mondo (pubblicato solo di recente in Italia da Elèuthera) denunciando anni prima della pandemia un eccesso di mobilità  devastante per il pianeta. “Rivalutate la noia, i tempi lunghi, le soste prolungate. Immergetevi nelle vite ordinarie della gente”, scriveva nel 2014 il sociologo francese. Per Christin non esiste il turismo sostenibile o responsabile, il turismo è tout court all’interno di logiche capitalistiche e distruttive e andare in vacanza è sempre un desiderio indotto, un anestetico, uno sfogo istituzionalizzato dal consumismo. Nulla è più distante dal viaggio del turismo. 

Oggi si può ancora viaggiare? C’è ancora qualcuno che lo fa davvero? 

Più è facile spostarsi, più è difficile viaggiare. La banalizzazione degli spostamenti ha reso asettica l’esperienza del viaggio. Forse, i veri viaggiatori di quest’epoca caotica sono i migranti che, nel loro viaggio, mettono in gioco tutto. Si può viaggiare anche per caso, scoprire qualcosa che non ci si aspettava, all’angolo della strada o molto lontano. Dopo tutto, poco importa. La distanza oggettiva non conta. 

Eppure per alcuni anche i migranti sono vittime di una fascinazione per le culture occidentali e del consumismo. 

I migranti, e parlo di quelli che ho conosciuto, in particolare in Senegal, erano ossessionati da un senso di bisogno. Per vivere e far vivere i loro famigliari, oppressi da economie allo sfascio, dovevano partire e partire equivaleva per loro a saldare un debito, conservando onorabilità agli occhi delle loro famiglie. Mi pare proprio che, se avessero potuto scegliere, sarebbero rimasti.

Per uno scrittore come Michel Houellebecq il turismo è “l’economia della frustrazione”. Turismo o rivoluzione, dunque?

Il turismo dimostra che il capitalismo sa rendere desiderabile la sudditanza ai suoi imperativi. Per rispondere al malessere di cui il turismo (insieme ad altre cose) è il sintomo, sarebbe necessario ingaggiare una rivoluzione culturale. Il problema delle rivoluzioni culturali è che spesso non vanno a buon fine. Sapremo fare meglio dei nostri predecessori, e se possibile senza spargimenti di sangue? In quest’ambito, nulla è sicuro. Forse, agiremo perché costretti a farlo, invece, in quanto non potremo continuare a consumare il mondo ancora molto a lungo. In ogni caso, non potremo farlo senza accettarne tristemente le conseguenze. Si direbbe che la festa sia finita. Il capitalismo ha raggiunto i suoi limiti, evidenzia la sua capacità di distruzione, ma sa adeguarsi. Di conseguenza, non vi è motivo di gridare vittoria. Se non modificheremo il nostro stile di vita, andremo dritti dritti verso una tirannia sanitaria e ecologica. Quest’ultima inizia già a far capolino.

Il rapporto con la natura e con il selvaggio (in particolare con la montagna) è secondo lei quasi completamente deteriorato e falsificato. Il turismo “sostenibile” sembra essere una contraddizione. Perché? Vale lo stesso per il mare?

La tutela del “selvaggio” è l’altra faccia del suo sfruttamento. Il mare rientra tra i grandi spazi che mi affascinano, come la montagna o la foresta. Purtroppo, sembra che sia pieno di particelle di plastica e che neanch’esso si sottragga alla devastazione in corso. È diventato uno spazio sfruttato come gli altri. Vale lo stesso per l’oceano. Alcuni affermano addirittura che lo conosciamo troppo poco e che conoscerlo meglio consentirebbe di valorizzarne le risorse. Tra quanti lo affermano sembra che vi siano persone benintenzionate, che sperano in fin dei conti di proteggere meglio gli oceani. Sono soltanto ingenui: tutto quello che sarà sfruttabile sarà sfruttato.

Quel tipo di viaggiatore lento che non prende gli aerei per scelta o che viaggia a piedi o in bicicletta e si muove grazie anche a piattaforme di sharing economy non tenta forse di ridare vita a quella “tradizione dell’accoglienza” che lei considera morta? 

È probabile. Il turismo ha cancellato l’ospitalità. Tutto quello che potrebbe riportarla in vita mi pare auspicabile. 

Il turismo è chiuso, il viaggio è aperto, lei dice. Il villaggio turistico o il Club è per sua natura l’emblema della chiusura. Però chi viaggia in barca o in van porta in giro la sua casa in una forma di “chiusura” ben diversa. 

Quando parlo di chiusura, alludo alla chiusura materiale di taluni luoghi per entrare nei quali si deve pagare, perché sono dedicati al passatempo dei turisti. Mi riferisco anche alla chiusura simbolica e organizzativa dei circuiti turistici presso località famose che è impossibile non visitare per dare pieno valore all’esperienza turistica. La questione dei mezzi di trasporto è diversa, anche se barche, camper, automobili e aerei sono tutti veicoli che in effetti prevedono di chiudersi dentro a un abitacolo. Tuttavia, si deve poter viaggiare così. C’è chi ha sostenuto che sia possibile viaggiare perfino senza uscire dalla propria stanza…

Jack London, lo scrittore di viaggio per eccellenza, ha precorso sostanzialmente ogni moderna visione sul viaggio: dall’attrazione per l’abisso al viaggio avventuroso e lento intorno al mondo, dalla migrazione città-campagna all’ossessione della natura selvaggia. Esiste un nuovo Jack London? 

Non conosco il nuovo Jack London. Adesso, in un certo senso, l’avventura è diventata un’istituzione, con le sue icone, i suoi festival e i suoi prodotti commerciali. All’inizio Jack London cercò di sopravvivere, potremmo dire che fece il possibile per vivere un po’ meglio. Quel teppistello dall’infanzia difficile andò a cercare oro nel Klondike proprio per quel motivo. Se oggi un/una migrante dovesse creare un’opera a partire dalle sue avventure, forse diventerebbe il/la nuovo/a Jack London. Chissà.

Oggi esiste ancora l’avventura? 

L’avventura esiste e resta conforme alla sua definizione: arriva per caso, in modo inatteso, elude i programmi e talvolta assomiglia a una disavventura. Non esistono ricette per incontrarla a colpo sicuro. La maggior parte degli avventurieri cerca addirittura di starne alla larga.

La mobilità sradica, il viaggio radica. Perché sono ancora così importati le radici? 

Per svilupparsi e mobilitare le risorse umane necessarie al suo funzionamento, il capitalismo ha dovuto cantare le virtù della mobilità e strutturarne le regole. Spostare gli operatori economici a seconda delle esigenze, dunque, è passato per attività virtuosa, propizia all’apertura mentale. In verità, si tratta di un modo per mettere a propria disposizione le persone, strappandole ai loro territori. In questo caso, si può parlare di sradicamento inteso come principio attivo e conseguenza della globalizzazione. Questa situazione rende la mobilità imprescindibile, come esigenza morale e modo di organizzare la realtà attorno a infrastrutture materiali adeguate. Quando dico che un viaggio radica, parlo di un’esperienza memorabile, vissuta in un luogo affascinante che riesce a strutturare la memoria di un individuo e a fare di quel luogo un elemento creatore della sua storia personale. Ciò presuppone un’idea aperta del concetto di radici: ci sono radici che si ereditano e radici che si scelgono. Si potrebbe parlare anche di ancoraggio, volendo ricorrere a una metafora marittima: gettare l’ancora e tirare su l’ancora… Per me le radici riguardano più di ogni altra cosa la memoria.

Quando ha pubblicato il suo libro eravamo lontani dall’emergenza sanitaria che ora viviamo. Pensa che il Covid sia sufficiente per cambiare le cose? 

Cambierà finché le limitazioni sanitarie condizioneranno la mobilità e l’apertura delle frontiere. Se i divieti saranno tolti, ogni cosa ripartirà. O quanto meno cercherà di farlo. 

Con il Covid è diventato chiaro che l’eccessiva mobilità è anche portatrice di contagi. Che ne pensa? 

Prima di tutto, mi sembra che portatrice di contagi sia la propensione a devastare il mondo e, facendo ciò, a entrare in contatto in massa con esseri viventi disorientati, le cui condizioni di vita sono state modificate. Se devo dar retta ad alcune notizie, con il disgelo del permafrost il peggio deve ancora arrivare. Sarebbe necessario vigilare anche per tutelare l’inaccessibilità del mondo. La mobilità dovrebbe essere rara, difficile quanto basta da imporre di rifletterci su due volte.

Non teme di essere accusato di essere reazionario quando critica l’eccessiva mobilità della nostra società? 

Non critico i singoli individui né le comunità etniche. Critico un sistema che banalizza il mondo per sfruttarlo in tutta la sua estensione. Il capitalismo è un internazionalismo riuscito. A questo proposito, io peroro la causa del Tout-Monde (“Tutto-mondo”)diEdouard Glissant: un mondo di relazioni affrancate dal desiderio di conquista e sottomissione, un mondo dove l’etica della “globalità” subentri all’economia rapace della globalizzazione. 

Che cosa consiglia a noi lettori? 

Prendetevi tempo. Mettete tra parentesi i vostri doveri e i vostri obblighi, oppure ve li trascinerete dietro.

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